lunedì 30 luglio 2012

(Mt 13,36-43) Come si raccoglie la zizzania e la si brucia nel fuoco, così avverrà alla fine del mondo.


VANGELO
 (Mt 13,36-43) Come si raccoglie la zizzania e la si brucia nel fuoco, così avverrà alla fine del mondo.
Dal Vangelo secondo Matteo

In quel tempo, Gesù congedò la folla ed entrò in casa; i suoi discepoli gli si avvicinarono per dirgli: «Spiegaci la parabola della zizzania nel campo». Ed egli rispose: «Colui che semina il buon seme è il Figlio dell’uomo. Il campo è il mondo e il seme buono sono i figli del Regno. La zizzania sono i figli del Maligno e il nemico che l’ha seminata è il diavolo. La mietitura è la fine del mondo e i mietitori sono gli angeli. Come dunque si raccoglie la zizzania e la si brucia nel fuoco, così avverrà alla fine del mondo. Il Figlio dell’uomo manderà i suoi angeli, i quali raccoglieranno dal suo regno tutti gli scandali e tutti quelli che commettono iniquità e li getteranno nella fornace ardente, dove sarà pianto e stridore di denti. Allora i giusti splenderanno come il sole nel regno del Padre loro. Chi ha orecchi, ascolti!».

Parola del Signore
LA MIA RIFLESSIONE
PREGHIERA
Vieni o Santo Spirito e illuminaci, a me che scrivo, a te che leggi,a noi che ti ascoltiamo. Fa che tutto sia comprensibile ai nostri orecchi, perchè tu stesso hai detto, chi ha orecchie per intendere intenda, e noi affidiamo a te le nostre orecchie,perchè tu le apra.

Dopo averci detto di non estirpare la zizzania, perché solo a Lui spetta questo compito, oggi , il Signore ci parla di quello che sarà il giorno del giudizio. Gli uomini fanno la loro scelta, consapevoli di quello che stanno facendo, e scelgono se appartenere a Dio o a satana, scelgono tra il bene ed il male.
Verrà il Signore Gesù, il figlio dell’uomo e manderà i suoi angeli a raccogliere tutti i peccati e le iniquità e coloro che li compiono e li estirperà dalla terra e li getterà nella fornace ardente dell’inferno, dove per sempre sarà pianto e stridore di denti. La giustizia Divina farà risplendere della luce del Signore coloro che avranno scelto di essere figli di Dio. Avere fede significa credere che tutto questo avverrà e che saremo ripagati delle nostre sofferenze, che finalmente il regno dei cieli è vicino, che questo sulla terra è solo un passaggio, ed anche se non è sempre facile siamo qui solo per fare la scelta giusta. Abbiamo quindi pazienza e fiducia in Dio, perché Lui solo sa quello che è giusto.
Camminare sulla via che il Signore ha tracciato e percorso per noi , che non è sempre facile, è vero, ma almeno sappiamo di essere nel giusto,di poter vivere alla luce, di non avere nulla di cui vergognarci,di non aver fatto del male a nessuno e di aver sempre cercato di fare un po' meglio.Non è così difficile in fondo,n comprenderlo ,ne cercare di vivere amando il prossimo e Dio.
Se da parte nostra c'è il rifiuto di credere in Dio, possiamo comunque amare il prossimo e non ferire nessuno. Quello che spesso invece si riscontra , e mi addolora, è che chi si definisce ateo o agnosta, si scaglia quasi sempre contro la Chiesa, il Papa e i Cristiani, perchè non si accontenta di non credere in Dio, ma si dichiara apertamente nemico di Dio...  questo dovrebbe far riflettere.
Oggi voglio pregare Signore, proprio per chi crede che tu non esista, e sente questa forte avversione per tutto quello che è Sacro, ossia Tuo.
Perdonali Padre, perchè non sanno vedere il nemico, e non riescono a difendersi.
Tu ci insegni che tutti siamo tuoi figli, che tutti siamo amati da te, e che non vuoi che  nessuno si danni.
Ci dici che anche l'empio va amato e proprio perché va amato bisogna lottare e pregare per la sua conversione prima che muoia, prima cioè che si presenti al tribunale di quel Dio che ha bestemmiato e con il quale dovrà fare tutti i conti.
Per quanto ci costi pregare per chi secondo la nostra misera natura umana, nulla meriterebbe, ti chiediamo di accettare questa nostra preghiera, come occasione per loro di conversione e per noi di crescita nell'amore. Fa che possiamo come Gesù dire con il cuore sanguinante, Padre perdonali perchè non sanno quello che f.anno! Amen.

mercoledì 25 luglio 2012

(Mt 13,10-17) A voi è dato conoscere i misteri del regno dei cieli, ma a loro non è dato.


VANGELO
 (Mt 13,10-17) A voi è dato conoscere i misteri del regno dei cieli, ma a loro non è dato.
 Dal Vangelo secondo Matteo

In quel tempo, i discepoli si avvicinarono a Gesù e gli dissero: «Perché a loro parli con parabole?». Egli rispose loro: «Perché a voi è dato conoscere i misteri del regno dei cieli, ma a loro non è dato. Infatti a colui che ha, verrà dato e sarà nell’abbondanza; ma a colui che non ha, sarà tolto anche quello che ha. Per questo a loro parlo con parabole: perché guardando non vedono, udendo non ascoltano e non comprendono. Così si compie per loro la profezia di Isaìa che dice:“Udrete, sì, ma non comprenderete,guarderete, sì, ma non vedrete.Perché il cuore di questo popolo è diventato insensibile,sono diventati duri di orecchie hanno chiuso gli occhi,perché non vedano con gli occhi,non ascoltino con gli orecchie non comprendano con il cuoree non si convertano e io li guarisca!”.Beati invece i vostri occhi perché vedono e i vostri orecchi perché ascoltano. In verità io vi dico: molti profeti e molti giusti hanno desiderato vedere ciò che voi guardate, ma non lo videro, e ascoltare ciò che voi ascoltate, ma non lo ascoltarono!».

Parola del Signore
LA MIA RIFLESSIONE
PREGHIERA
Aiutami Signore mio, a capire il senso delle tue parole, perchè voglio essere fedele a Te in tutto e per tutto.

"A voi sarà dato" non dice che lo abbiamo meritato,ma che ci è stato dato in dono.
Nessuno più di me,può assicurarvi quanto questo sia vero e gratuito. Ma quello che oggi mi viene voglia di narrarvi,è quanto  quello che io vedo compiere ogni giorno in me, è un miracolo della fede.
Comincia con un piccolo si,con un voglio fidarmi,voglio credere e poi nel tempo cresce fino ad impossessarsi di noi e di tutto il nostro essere. E' gesù quello che ci è dato,è Lui che entra nella nostra casa,nel nostro cuore e ci riempie della sua parola.Il nostro vivere diventa allora grazia e lo diventa in abbondanza. Quel versetto secondo la quale chi tale dono lo ha ricevuto, lo vedrà anche moltiplicarsi e crescere, mentre chi non lo avesse ricevuto vedrà scemare e scomparire quello che pensava di aver capito e raggiunto,mi porta alla parabola dei talenti.
Che stiamo facendo della nostra vita terrena? A quale scopo la stiamo usando? E' fine a noi stessi il nostro vivere, o è meravigliosamente legato al progetto di Dio? Perchè quello che abbiamo ricevuto in dono,non ci serve per essere eterni sulla terra,per essere ammirati ,nè stimati,nè capiti,ma ci serve per vivere da figli di Dio ed entrare nel suo regno per sempre .Questo è comunione con Dio, con la sapienza divina, che nessuno di noi merita,ma che ci viene donata proprio perchè accettiamo di viverla e viverla fino in fondo e, a questo proposito,voglio fare con voi una preghiera.
O Dio  buono, che hai rivelato queste cose ai piccoli e ai puri di cuore, fa che possiamo sempre aver presente la nostra piccolezza e non cadiamo nel peccato di superbia; fa che ci affidiamo sempre completamente a te, e non permettere che mai veniamo ingannati o turbati, perchè noi sappiamo che senza il tuo aiuto, l 'unica cosa grande che abbiamo, è la nostra debolezza. Ascoltaci Signore.

giovedì 12 luglio 2012

SANTA RITA DA CASCIA

https://www.facebook.com/notes/lella-mingardi/santa-rita-da-cascia/10150095055121419


La piccola Rita fra le api
A Roccaporena, un pae­sino dell'Umbria vicino a Cascia, nacque, verso il 1370 da Antonio Lotti e da Amata Ferri di Foligno, una grazio­sa bambina: Margherita. Un lungo nome subito accorciato in Rita.
Non conosciamo il giorno e il mese, ma doveva esser luglio se, come narra la leg­genda, i due genitori, impe­gnati nei lavori di mietitura, non sapendo a chi lasciar la bambina, se la portavano nel campo, dentro a una cesta, avendo cura di sistemarla al­l'ombra. Un colpo di falcetto, uno sguardo al loro tesoro: la piccola è quieta.
Fa caldo, il sole arde. A un tratto si ode un grido: un mietitore si è ferito a un brac­cio, perde sangue. Eccolo che corre al fiume per lavare la ferita. Nell'impeto, per poco non travolge la cesta con la bimba. E resta di sasso.
La culla è diventata un alveare: uno sciame di api bianche ronza intorno alla bambina, qualcuna entra ed esce dalla boccuccia socchiu­sa, altre solleticano le orec­chie e s'insinuano tra i ca­pelli.
Sgomento, l'uomo alza un braccio per scacciare gli inset­ti - ed è proprio il braccio ferito! - ed ecco s'accorge che il sangue non esce più dalla ferita già del tutto rimargina­ta. Cade in ginocchio. E subito si parla di miracolo.
Lo sappiamo: le api non pungono se non sono mole­state, e forse Amata aveva messo tra i pannicelli qualche profumata spiga di lavanda, e le api, come sono solite fare tra i fiori del prato, avevano in­trecciato un loro aereo gioco. Ma il braccio improvvisa­mente guarito?
Questo episodio è raffigu­rato in una tela dipinta tra il 1457 e il 1480, e ancor oggi sono chiamate Api o Apette di santa Rita le orfanelle ospitate presso il Santuario a Cascia.
L'infanzia e la fanciullezza di Rita
Pare che Antonio e Ama­ta fossero già anziani quando nacque Rita. Non erano po­veri perché possedevano un orto vicino a casa e forse un campicello alle Capanne. Di certo si sa che erano entrambi pacieri, cioè mediatori di pace tra i contendenti: un mestiere difficile e rischioso, ma meri­torio per quei tempi e in quei luoghi in cui litigi, risse e vendette, erano una caratteri­stica della vita sociale.
Pochi giorni dopo la na­scita, Rita fu portata dai geni­tori e sicuramente in compa­gnia di parenti e amici, fino a Cascia per essere battezzata. E così la piccola Rita cre­sceva come crescono tutti i bambini del mondo, un anno dopo l'altro, mentre la vita quotidiana veniva ritmata dai fenomeni meteorologici, dall'avvicendarsi delle stagio­ni, dai lavori in campagna, dalle faccende domestiche.
Fin da piccola Rita, che non aveva né fratelli né sorel­le, manifestò tendenza alla solitudine. Saliva spesso a pregare sul monte Scoglio, si imponeva piccole penitenze. Era dolce, riflessiva e, sul­l'esempio dei genitori, impa­rò presto a occuparsi del pros­simo.
È certo che imparò a leg­gere e a scrivere dai religiosi del tempo. Ma quel che è an­cora più sicuro ed evidente e che nella fanciullezza e nell'adolescenza di Rita non c'è assolutamente niente di sensazionale e di straordinario, se non una esemplare fedel­tà all'insegnamento religio­so impartito dai suoi genitori. Possiamo tutt'al più immaginare che Rita si recasse di tanto in tanto a Cascia con i genitori o con qualche ami­ca, per partecipare alle fun­zioni più solenni, per ascoltare celebri predicatori, per con­fessarsi, per fare acquisti nei negozi di alimenti e di stoffe. O forse per una visita ai due monasteri delle suore ago­stiniane, Santa Maria Madda­lena e Santa Lucia. Nei paesi casciani le vocazioni erano numerose: a quel tempo le ra­gazze già a dodici anni pote­vano contrarre matrimonio o decidere di entrare in con­vento
Rita ubbidisce ai genitori e si sposa
Fu in quegli anni della sua adolescenza, che Rita sentì sbocciare nel suo cuore quel­l'amore a Cristo, a Cristo Crocifisso, che avrebbe alla fine dominato tutti i suoi pen­sieri e i suoi affetti. È proba­bile che avesse espresso ai genitori il desiderio di consa­crarsi a Dio, ma Antonio e Amata, ormai alle soglie della vecchiaia, avevano già altri progetti per la loro figliola.
A tredici anni Rita era una bella ragazza: non molto alta (m. 1,59), slanciata, oc­chi castani, folti capelli bion­di, zigomi pronunciati, labbra sottili, un incantevole sorriso.
Un giorno la mamma la chiamò e le disse che era tempo di pensare a un marito, anche il padre era d'accordo (anzi, insieme, avevano già posato lo sguardo su qualche giovane per bene) e subito le spiegò quali erano i doveri di una buona moglie.
Rita non si preoccupò di quell'annuncio: secondo le leggi in vigore a Cascia, un matrimonio non poteva vera­mente realizzarsi prima che la donna avesse compiuto i quin­dici anni: gliene restavano an­cora due per prepararsi a quel­l'evento, e in due anni tante cose potevano cambiare.
Ma Rita già sapeva che avrebbe ubbidito ai genitori, perché erano buoni, si preoc­cupavano per lei, e perché aveva imparato che amare e ubbidire sono la stessa cosa. Dopo tutto apprezzava la sol­lecitudine che aveva anso i suoi cari nella ricerca di un uomo che vegliasse sulla loro figliola tanto giovane ancora. E si commosse rendendosi conto - e traendone un'ulte­riore lezione - del vero amore che aveva legato la mamma e il babbo per tanti anni, e del­l'amore di entrambi per lei.
Accettò dunque di diven­tare sposa di un tal Paolo di Ferdinando Mancini, un «uo­mo d'armi», che aveva il gra­do di ufficiale e comandava una guarnigione di settanta­cinque soldati e un'alta torre quadrata di vedetta.
Il matrimonio venne ce­lebrato intorno al 1385, quando Rita aveva circa di­ciotto anni e suo padre aveva passato i novanta. C'erano modalità precise da seguire.
Il giorno stabilito Paolo mandò un gruppo di amici a prendere la sposa, già in attesa sulla soglia della casa paterna. Durante il breve tragitto Rita, radiosa di giovinezza, ricevet­te sorrisi e auguri; le ferree leggi non permettevano però che accettasse doni.
Paolo le andò incontro, l'abbracciò, l'accompagnò dentro: la tavola era apparec­chiata per un lieto convito.
La settimana seguente toccò ai Lotti offrire un pran­zo, cui Paolo partecipò coi pa­renti, tre uomini e tre donne, una delle quali aveva recato, secondo l'uso e per conto di Paolo, un canestro coltro di cibarie.
La sera gli sposi tornarono a casa per realizzare le loro speranze con l'aiuto di Dio e l'impegno della loro buona volontà.
Amata e Antonio, già anziani, non sopravvissero a lungo alla celebrazione del matrimonio della figlia.
La vita di Rita, sposa e madre
Dopo la morte dei genito­ri cominciò per Rita un pe­riodo difficile. Gli storici so­no quasi tutti concordi nel descrivere Paolo come un uo­mo rude, violento, rissoso; ma possibile che i Lotti, che adoravano la figlia, l'avessero data in sposa a un mascalzone, a un uomo corrotto? Era un giovane di buona famiglia e amava Rita.
Certo, era un soldato, non poteva aver modi da «cavalier cortese», ma Rita aveva edu­cazione, sensibilità, tempera­mento, si accontentava di poco e sicuramente amò Pao­lo per quel che era.
Fu un'ottima moglie, buo­na, allenata alla pazienza, e pregare l'aiutava. Svolgeva i suoi compiti con serenità: preparava i pasti, teneva in ordine la casa, lavava i panni al lavatoio pubblico, andava a prender acqua alla fontana e la sera attendeva con trepi­dazione l'arrivo del consorte che spesso tardava.
Rita e Paolo ebbero due figli gemelli e casa Mancini risuonò di trilli e di risate. Che bella famigliola doveva essere! Un uomo forte, una donna tutta carità e amore, due bimbi esuberanti... Trop­po bello per durare.

Un brutto episodio
Una brutta mattina Rita aprì la porta di casa e inorridì: lì sulla soglia giaceva riverso, straziato da una pugnalata al petto, il corpo senza vita di Paolo.
La donna scoppiò in un pianto disperato: che fare? Chiamar gente, o vincere l'angoscia e l'orrore e traspor­tare in casa il suo uomo, lavar­lo, comporlo per la veglia fu­nebre e nascondere ai figli l'orrendo spettacolo di quella camicia insanguinata per non suscitare in loro - fieri e ribelli come il padre - propositi di vendetta?
Rita non urlò il suo im­menso dolore, lo offerse a Dio.
Correva l'anno 1402.

Rita non vuole vendetta e prega per i figli
«A coltello si risponde col coltello».

Rita tentava in tutti i modi di cancellare dal cuore dei fi­gli l'odio e il rancore, di sosti­tuirvi sentimenti di pietà e di perdono, ma soltanto il buon Dio poteva aiutarla. Perciò sempre più spesso, d'estate e d'inverno, saliva al monte dello Scoglio per pregare l'Onnipotente affinché le concedesse la grazia di far in­tendere ai gemelli il linguag­gio della carità cristiana.
Si macerava nei digiuni, visitava gli ammalati, le per­sone anziane e sole, compiva per loro i lavori più umili, dava ai poveri tutto ciò che poteva e chiedeva a Dio che riservasse a lei sola angosce, tribolazioni e magari il marti­rio, ma liberasse i figli, che ormai avevano dodici - tredi­ci anni e conoscevano bene il nome degli assassini, dai cat­tivi proponimenti.
Un giorno, disperata, offrì i figli a Gesù: «Signore, dolce amore, non permettere che la loro anima si macchi di un'as­surda vendetta. Lévali dal mondo, piuttosto: io te li dono, fa' di loro secondo la tua vo­lontà».
Non sappiamo se, come vuole la tradizione, i ragazzi veramente si ammalarono e morirono di qualche malattia infettiva, o se - secondo altre testimonianze - Rita affidò i figli a parenti che abitavano lontano da Cascia e quindi vissero a lungo. (Un quadro dell'epoca ritrae Rita morente coi due figli inginocchiati ai piedi del letto).

In un modo o nell'altro - morte o esilio - il cuore della madre pianse lacrime di san­gue.
Rita desidera la pace di un convento



Rita ora era sola, ma an­cora molto giovane e ricca di energie. I direttori spirituali e i predicatori consigliavano volentieri il monastero alle vedove senza impegni.
Rita era una solitaria che voleva servire: anche lei sem­pre più spesso e più ardente­mente desiderò la pace e l'at­tività del chiostro.
Doveva esser facile - pen­sava Rita - trovar posto in un convento: a Cascia e nei dintorni sorgevano ben set­tanta chiese, nove monasteri e una infinità di eremi e di romitori.
Da ragazza, Rita aveva frequentato spesso il conven­to di Santa Maria Maddalena: perché non tornare lì?
Un giorno si presentò alla madre badessa e la pregò di accoglierla come novizia. Secondo l'uso la superiora con­sultò le consorelle, e la rispo­sta fu un deciso No. Le ragioni del rifiuto erano motivate: Rita si lasciava alle spalle un omicidio impunito, un conto aperto, prima o poi la faida sarebbe esplosa; era anche noto che tra Rita e i Mancini esisteva­no diversità di vedute. Meglio non correre rischi. Rita non s'adombrò: era paziente, sapeva aspettare; a chi le chiedeva come mai non si ritirasse nella pace di un convento come altre vedove casciane avevano fatto, ri­spondeva sorridendo che le porte del monastero non si erano ancora schiuse per lei. La pazienza, si sa, è una delle prove che Dio chiede agli uomini, ed è la più eroica del­le virtù, proprio perché non ha nessuna apparenza di eroico.

La conversione dei suoi parenti


Ma un giorno (erano tra­scorsi cinque anni dalla morte di Paolo), bussarono alla casa di Rita due fratelli Mancini: erano affaticati, coperti di polvere e di cicatrici, chissà da dove arrivavano e a quali peripezie erano scampati.
Salutarono Rita in modo insolito: «Pace a te, Rita. Pace a te, cara cognata». E pro­nunciarono parole consolan­ti: avevano perdonato agli as­sassini di Paolo; tutti i Manci­ni avevano perdonato. Erano pronti a firmare, davanti a testimoni, l'atto di pace che sarebbe stato trascritto nei registri del Comune. Rita scoppiò in singhiozzi e cadde in ginocchio: Dio grande e misericordioso le aveva concesso la grazia in cui non osava più sperare.

Rita «entra» in monastero

 
Ora non esisteva più ra­gione per cui la badessa di Santa Maria Maddalena non dovesse aprirle le porte. Ma non dovette nemmeno com­pierlo, questo gesto: Dio ave­va disposto altrimenti.
La leggenda narra che in una buia notte di tempesta Rita stava pregando sul mon­te Scoglio quando si sentì prender per mano e trasporta­re, lieve come piuma, fino al chiostro del monastero, al di là delle finestre ben chiuse, oltre il pesante portone sbarrato e ben munito di chiavistelli.
Nell'attimo in cui Rita pose piede a terra, le si rivela­rono prima di sparire i suoi tre misteriosi accompagnatori: erano san Giovanni Battista, sant'Agostino, Nicola da Tolentino.
Quando all'alba le suore si radunarono al suono della campanella, scoprirono Rita prostrata in preghiera «den­tro» la loro casa. Fuori di sé dalla meraviglia la subissarono di domande. Ma lei non seppe rispondere altrimenti che col suo disarmante, dol­cissimo sorriso.
Venne dunque accettata e cominciò l'anno del novizia­to, l'anno cioè di prova e di preparazione alla vita mona­cale.
In quei mesi toccarono sempre a Rita, paziente e ob­bediente, le attività più umili, come sbucciare patate, lavar panni e stoviglie, zappare l'or­to e, ohibò! vuotare e deterge­re i vasi da notte. Le sue mani diventavano rosse, gonfie, si screpolavano, sanguinavano: nel segreto della sua cella Rita offriva tutto a Gesù, lieta di soffrire con lui e per lui.

Vende i suoi beni e si consacra al Signore



Poco dopo il suo arrivo in convento, Rita si recò dal notaio Domenico Angeli, che la conosceva bene, perché intendeva liberarsi di tutti i suoi beni: casa, risparmi, ter­reno.
Il notaio, perplesso, obiet­tò: «Ma Rita, non hai ancora pronunciato i voti; aspetta, potresti sempre ripensarci!»
In effetti qualche volta la nostalgia la pizzicava, un vago tormento la inquietava: «E se tornassi alla mia casa, al mondo che sta fuori?» Ma sa­peva bene che si trattava di ten­tazioni che doveva cacciare: «Vendete tutto - ordinò al nota­io - e il ricavato sia trasformato in pane per i poveri».
E su queste parole sfilò dall'anulare anche la fede nu­ziale.
Trascorso l'anno, pronun­ciò i voti di povertà, castità e obbedienza.
In ginocchio, le mani giunte, davanti all'altare, dis­se con voce chiara: «Io Rita, liberamente e pubblicamente voglio offrire la mia persona a Dio onnipo­tente, al beato Agostino, alla beata Maria Maddalena, e prego te, madre badessa, di accettare questa mia volontà a nome e da parte di tutto il monastero, promettendo di vivere sempre in detto luogo, la conversione dei costumi in obbedienza, castità e povertà, e di privarmi di ogni cosa per­sonale per tutto il tempo della mia vita... »
Dopo la lunga cerimonia che aveva compreso il taglio delle bionde trecce, la ve­stizione, e poi le congratula­zioni e le lodi della badessa («Ecco una nuova sposa del Signore... Ecco una nuova sorella per la nostra comuni­tà... ») venne offerto nel re­fettorio un piccolo ricevi­mento con vino frizzante e paste dolci. Le monache as­saggiarono tutto, Rita non toccò nulla: si sentiva già sa­zia. Desiderava soltanto riti­rarsi nella sua cella per rin­graziare il Signore.
La sua vita nel monastero


Un anno dopo l'altro (ne sfileranno quaranta) Rita, ape laboriosa, visse nel monastero di Santa Maria Maddalena. La sua natura generosa la ren­deva indispensabile a tutte le consorelle, giovani e anziane, sane e ammalate.
«Solerte, ubbidiente, silen­ziosa» avrebbe potuto scrivere la badessa sui suoi registri.
Quando stava a Rocca­porena, Rita visitava spesso il lazzaretto situato a un centi­naio di metri da casa sua: dapprincipio le era stato dif­ficile sopportare i lamenti, le invocazioni dei pazienti, e so­prattutto il cattivo odore del­l'ambiente e della carne cor­rotta dalla malattia. Poi nel nome di quel Gesù che aveva detto: «Chi farà del bene al­l'ultimo dei miei fratelli lo farà a me» aveva superato il disa­gio e il disgusto, ed era riuscita a vedere nel povero e nell'am­malato un fratello, Gesù stesso.
Per questo un giorno aveva supplicato la badessa di permetterle di aiutare chi sof­friva. Così aveva continuato a portar piccole provviste di cibo a persone anziane sole, a me­dicare piaghe e ferite, a cam­biare fasciature, finché il Si­gnore la impegnò in una prova ancor più ardua spingendola verso i lebbrosi accampati nelle campagne fuori città.
Rita trascorreva molte ore anche in parlatorio; in com­pagnia di una consorella rice­veva ammalati, vittime di prepotenze, anziani abbando­nati, ragazze in crisi, madri dubbiose o disperate. Tutti chiedevano il conforto di una preghiera, l'aiuto di un consi­glio, e la piccola suora, esperta di problemi familiari e so­ciali, trovava ogni volta la so­luzione giusta. Col suo tratto signorile sapeva ridare fiducia e speranza. Chiunque l'avvi­cinasse era conquistato dal suo fascino indescrivibile; la be­nedizione che ella impartiva ai visitatori lasciava un segno. Era davvero una forza: vera­mente riusciva a cambiare il cuore delle persone.
Unita alle sofferenze di Gesù
Quell'anno - era forse il 1432, Rita aveva compiuto il suo cinquantesimo anno - tutta Cascia si era data conve­gno per ascoltare un famoso predicatore, Giacomo della Marca, un frate minore francescano.
Il frate parlò di Gesù e della sua passione.
Rita ascoltava con l'ani­mo colmo di compassione. Quando ritornò al convento, si fermò nell'oratorio a pian terreno e si lasciò andare da­vanti al Crocifisso. In ginoc­chio pregò fino al mattino.
Era l'alba quando sentì qualcosa sfiorarle la fronte, qualcosa di lieve come un ba­cio. Si toccò in quel punto, i polpastrelli avvertirono una specie di gonfiore. Quando ritirò la mano, le sue dita era­no tinte di sangue.
Il mistero di questa stimmate commosse le suore, oltrepassò le mura del con­vento. Dentro e fuori il mona­stero si cominciò a dire che Rita era talmente devota a Gesù sofferente che Egli ave­va voluto premiarla donando­le una spina della sua corona, e la spina aveva perforato l'os­so frontale.
E allora accadde che sempre più gente salisse al convento, e non soltanto gente umile in cerca di con­forto o di un consiglio, ma anche soldati, podestà, nobili, principi. Pare che anche Francesco Sforza, che di­venterà nel 1450 Duca di Milano, fosse andato a farle visita.
Rita non faceva niente di straordinario, si limitava a po­che frasi di esortazione al­l'amore e alla carità. Ma in quelle stente parole vibrava tanta passione che umili e potenti ne erano incantati.

Il miracolo della rosa
 






È l'anno 1447. E maggio, ma è ancora. inverno a Cascia, e Roccaporena è sepolta sotto la neve. Da molto tempo Rita è costretta a letto da fortissimi dolori. Resta lunghe ore in preghiera, così immobile che le suore la credono morta: «Parti - invocano a voce alta - o anima cristiana, da questo mondo nel nome di Dio Padre che ti ha creata, nel nome di Gesù Cristo, Figlio di Dio, che è morto per te, nel nome dello Spirito Santo che è stato effuso in te, nel nome di Maria Vergine Madre di Dio, nel nome di san Giusep­pe, del padre sant'Agostino, degli apostoli, dei martiri, delle vergini. Cristo ti collochi nel­le perenni amenità del suo Paradiso, Egli che è il Figlio di Dio; ti riconosca come sua pecorella, Egli che è il vero Pastore... che tu possa vedere a faccia a faccia il tuo Reden­tore e contemplare eterna­mente la chiarissima Verità».
Con un filo di voce Rita fa eco: «Non ricordarti, Si­gnore, dei peccati della mia giovinezza e della mia igno­ranza, ma perdonami secondo la tua infinita misericordia... Vieni, Signore, non tardare».
Chiede che le pongano accanto un grande Crocifisso, vuol poggiare la testa accanto al capo di Gesù incoronato di spine.
In quel momento si af­faccia alla porta della cella una parente di Roccaporena. Rita le sorride e le chiede un favore: torni al paese, entri nell'orto della sua ex casa, colga la rosa bianca appena sbocciata e i pochi fichi ma­turati sullo stento alberello.
La donna scuote il capo: non ci sono rose e fichi quando tira vento di tramontana; gli alberi sono spogli, i cespugli inariditi e dai tetti pendono ghiaccioli come stalattiti.
Ma ubbidisce. Torna a Roccaporena, raggiunge la casa: l'orto è sì coperto di neve, ma sul cespuglio accanto al portale due rose bianche sono sbocciate e sul brullo fico al­cuni frutti sono maturati.
Rita ringrazia, aspira il profumo della rosa e se la posa sul petto; vuole i fichi accanto alla croce.
Benedice le consorelle, chiede alla badessa di bene­dirla, riceve l'Ostia Santa, poi chiude gli occhi e sorride: è pronta per il gran viaggio. Dolcemente si spegne nella notte tra il 20 e il 21 maggio, e tutte le campane di Cascia si mettono a suonare senza che alcuno le abbia toc­cate.

sabato 7 luglio 2012

(Mc 6,1-6) Un profeta non è disprezzato se non nella sua patria.


VANGELO
 (Mc 6,1-6) Un profeta non è disprezzato se non nella sua patria.
Dal Vangelo secondo Marco

In quel tempo, Gesù venne nella sua patria e i suoi discepoli lo seguirono. Giunto il sabato, si mise a insegnare nella sinagoga. E molti, ascoltando, rimanevano stupiti e dicevano: «Da dove gli vengono queste cose? E che sapienza è quella che gli è stata data? E i prodigi come quelli compiuti dalle sue mani? Non è costui il falegname, il figlio di Maria, il fratello di Giacomo, di Ioses, di Giuda e di Simone? E le sue sorelle, non stanno qui da noi?». Ed era per loro motivo di scandalo. Ma Gesù disse loro: «Un profeta non è disprezzato se non nella sua patria, tra i suoi parenti e in casa sua». E lì non poteva compiere nessun prodigio, ma solo impose le mani a pochi malati e li guarì. E si meravigliava della loro incredulità.Gesù percorreva i villaggi d’intorno, insegnando.

Parola del Signore
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LA MIA RIFLESSIONE
PREGHIERA
Grazie o Spirito Santo di essere sempre così presente nella mia vita, di vivere costantemente nel mio cuore e accorrere al mio richiamo. Sei luce che spacca le tenebre, in ogni occasione; sei voce che grida nel deserto, la voce del Signore mio; sei l’impronta che Dio pone davanti a me perché ci metta il mio piede. Nulla ti è oscuro e nulla tu mi neghi. Ti adoro mio Signore che nella SS.Trinità, ci riempi della tua misericordia.

Seguire Gesù.  Sappiamo quanto è difficile essere onesti, quanto ci costa essere cristiani, vincere la tentazione di fare come tutti; come è difficile essere compresi e non trattati da poveri dementi per questa nostra fede. A Gesù stesso fu riservato questo trattamento, figuriamoci a noi; non ci saranno certo belle parole e complimenti, anzi, a volte anche tra chi ha fede tra chi vive nella stessa comunità Cristiana,ci saranno incomprensioni. Pensate che, a Gesù,che  non aveva colpe, non aveva mai dato scandalo con i suoi comportamenti,  non aveva mai fatto del male a nessuno,  lo hanno oltraggiato, fustigato, sbeffeggiato ed ucciso. Non speriamo di essere trattati meno duramente amici miei, noi che siamo anche peccatori…. Forse non ci uccideranno su una croce,ma vedrete come l'uomo riesce a traformare il bene in male, quando segue satana e non Gesù! Gli uomini hanno molta più memoria dei peccati altrui che dei propri. Una frase in questa pagina di Vangelo, mi porta a invitarvi, e a rinnovare a me stessa l ' invito a credere e a fare veramente posto alla parola di Dio nel nostro cuore:- E lì, a causa della loro incredulità, non fece molti prodigi.- Lasciamo che Gesù entri con tutto il suo ESSERE nel nostro cuore, facciamogli tutto il posto che riusciamo a fargli con la nostra disponibilità a fidarci di lui ed affidarci a Lui, non cerchiamo di voler fare, capire, agitarci come Marta, ma restiamo in ascolto di quello che lui ci indicherà con la sua parola…  facciamogli posto nel cuore e nella mente e allora si che vedremo grandi prodigi,senza dover andare troppo lontano a cercare, ma ripartendo da dentro di noi. Potremo allora dire anche noi,ti cercavo fuori e ti ho trovato dentro di me, come ha detto Sant’Agostino in una delle sue pagine più belle.I nostri Santi, la lorovita, il loro modo di cercare e trovare Dio ,sono esempi da imitare,perchè pur vivendo nel mondo ,come tutti noi, hanno varcato la porta del Regno e ci insegnano come.
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Tardi t' amai, bellezza infinita, tardi t' amai,
tardi t'amai,bellezza così antica e così nuova.
 Eppure, Signore,  tu eri dentro me, ma io ero fuori;
deforme com' ero, guardavo la bellezza del tuo creato.
Tardi t' amai, bellezza infinita, tardi t' amai,
tardi t 'amai, bellezza così antica e così nuova.
 Eri con me, e invece io,  Signore, non ero con Te;
le tue creature mi tenevano lontano, lontano da Te.
Tardi t' amai, bellezza infinita, tardi t' amai,
tardi t' amai, bellezza così antica e così nuova.
 Tu mi chiamasti, e la Tua voce squarciò la mia sordità;
Tu balenasti e fu dissipata la mia cecità.
Tardi t' amai, bellezza infinita, tardi t' amai,
tardi t' amai, bellezza così antica e così nuova.
 Tu esalasti il dolce Tuo profumo ed ho fame e sete di Te;
mi hai toccato: ecco ora io anelo alla Tua pace.
Tardi t' amai, bellezza infinita,tardi t' amai,
tardi t' amai, bellezza così antica e così nuova.
Oggi come ieri,cerco tra le idee di una mente confusa, l'ispirazione per vivere il giorno che sta iniziando.
Il mio primo pensiero sei Tu Signore, che cosa mi comanderai oggi senza che io me ne renda neanche conto?
Questa è la mia unica consapevolezza,io non so cosa mi aspetta!
Ti cerco nel Padre che  mi ama al di sopra di ogni altra cosa,che ci ama tutti ed ognuno allo stesso identico modo,come se fossimo unici e divisi e diversi.
Ti cerco nel Figlio,Fratello di ognuno di noi,che ci viene a cercare se ci perdiamo,che continua a bussare alla porta del nostro cuore per entrare in ognuno di noi e diventare uomo in ognuno di noi,per donarci la sua santità.
Ti cerco in Maria,Madre della Chiesa e madre di tutti ,ma più di ogni altra creatura,Madre del Si ,perchè mi ha guidato fin qui,senza mai lasciarmi,coprendomi con il suo manto anche quando io mi allontano.
Ti cerco e ti trovo,Spirito Santo di Dio, nella mia fede,nella mia voglia di rendere onore e amore a Dio,nella fiducia che ripongo in voi e nella speranza di non fare nulla che possa essere dannoso e dispiacervi.
Io non so cosa guiderà i passi del mondo oggi,ma i miei passi,i miei pensieri,le mie preghiere e la mia vita,sono nelle vostre mani.Guidatemi e fate che io sappia seguirvi sempre e fedelmente,liberatemi dai pericoli d'inciampo e di caduta.Grazie per questo nuovo giorno da vivere con voi!

venerdì 6 luglio 2012

(Mt 9,14-17) Possono forse gli invitati a nozze essere in lutto finché lo sposo è con loro?


VANGELO
 (Mt 9,14-17) Possono forse gli invitati a nozze essere in lutto finché lo sposo è con loro?
Dal Vangelo secondo Matteo

In quel tempo, si avvicinarono a Gesù i discepoli di Giovanni e gli dissero: «Perché noi e i farisei digiuniamo molte volte, mentre i tuoi discepoli non digiunano?». E Gesù disse loro: «Possono forse gli invitati a nozze essere in lutto finché lo sposo è con loro? Ma verranno giorni quando lo sposo sarà loro tolto, e allora digiuneranno. Nessuno mette un pezzo di stoffa grezza su un vestito vecchio, perché il rattoppo porta via qualcosa dal vestito e lo strappo diventa peggiore. Né si versa vino nuovo in otri vecchi, altrimenti si spaccano gli otri e il vino si spande e gli otri vanno perduti. Ma si versa vino nuovo in otri nuovi, e così l’uno e gli altri si conservano».

Parola del Signore
LA MIA RIFLESSIONE 
PREGHIERA 
Ti prego o Santo Spirito, di rinnovare in questo periodo di quaresima, la mia fede, la mia anima ed il mio cuore, perché sempre fedele alla tua parola, possa seguire la via segnata per noi da Gesù. 
 Matteo ci parla di Gesù che nella regione dei Gaderèni, è interrogato dai discepoli di Giovanni, sul digiuno, che loro e i farisei rispettavano scrupolosamente e che invece i suoi discepoli non facevano.
Gesù tra le tante cose che vuole rinnovare per far capire bene i desideri del Padre, rinnova anche questa pratica del digiuno, togliendo da questa, la scorza d’apparenza, e offrendo se stesso come olocausto, per farci capire che non c'è amore più grande di quello che Lui e il Padre hanno per noi. Gesù con la sua risposta fa capire loro che i suoi discepoli, sono talmente legati a lui da essere come invitati a nozze alla presenza dello sposo, e che pertanto, non hanno motivo di digiunare, perché sono in simbiosi con lui, potranno farlo, se vorranno, quando resteranno da soli.  In questo periodo di quaresima, cerchiamo di vivere le regole fondamentali della fede, preghiera, digiuno e carità, con vero cuore, offrendo ogni nostra azione al Signore, perché è la disposizione dei nostri cuori che farà la differenza tra noi e i farisei.